Messaggio di don Mimmo Battaglia cardinale di Napoli in occasione del Giubileo Camilliano per i 450 anni della conversione di san Camillo. 2 febbraio 1575-2025

Sorelle e fratelli della Famiglia Camilliana, é con gioia che vi scrivo in questo tempo così importante per voi! Il Giubileo della Speranza che stiamo vivendo insieme è una breccia nel tempo, un vento di grazia che ci spinge fuori dalle nostre sicurezze per rimetterci in cammino. E dentro questo grande pellegrinaggio della Chiesa universale, il Giubileo Camilliano è un invito a non tralasciare in questo cammino chi soffre a causa della malattia e della povertà! S.Camillo non è stato un santo da inginocchiatoio, ma un viandante della misericordia, un esploratore del dolore, un pellegrino con le mani sporche di servizio e il cuore acceso di speranza. Per lui, il malato non era un peso, ma un altare; la sofferenza non era un ingombro, ma una chiamata. Oggi, in questo tempo che ha smarrito il gusto della prossimità, il suo grido è ancora vivo: non basta vedere la sofferenza, bisogna toccarla, amarla, servirla! 

S. Camillo non era un ragazzo pio, non era nato santo. La sua giovinezza era stata un campo di battaglia, un naufragio continuo, una strada persa tra le illusioni del mondo. Ma Dio ama prendere i cocci e farne mosaici, raccogliere le macerie e costruire santuari. La sua conversione non è stata solo un cambiamento di rotta, ma un’esplosione di vita, un incendio interiore. Il fuoco che lo bruciava non era più quello orientato al dominio, ma quello di una carità che non sa stare ferma. E così, da soldato di ventura, è diventato soldato della misericordia, da vagabondo del mondo a pellegrino dell’amore senza misura.

Come Vescovo di Napoli voglio esprimere al Signore e a tutti voi la mia gratitudine: il seme piantato da Camillo continua a germogliare nei solchi della nostra arcidiocesi partenopea. Lo vediamo nei reparti silenziosi degli ospedali, dove la sofferenza ha il volto dell’attesa e il respiro affannato della paura. Al Monaldi, al Pascale, al Policlinico, il carisma di Camillo si fa carezza, parola sussurrata, speranza che non si arrende. E ancora troviamo i germogli di questo seme nel cuore pulsante di Napoli, alla Comunità del Divino Amore di Spaccanapoli, dove il dolore della strada incontra la tenerezza di Dio, e nell’Ospedale Camilliano di Casoria, dove la malattia non è mai sinonimo di abbandono, ma occasione di incontro. In questi luoghi, la carità non è un discorso, ma una presenza; non è un sentimento, ma un’azione concreta che profuma di Vangelo vissuto.

Sono convinto che Camillo non appartiene al passato. Il suo fuoco arde ancora, la sua parola brucia come allora. Il mondo di oggi è pieno di uomini feriti, abbandonati ai margini, scartati dalla logica dell’efficienza. Eppure, proprio lì, dove il dolore grida più forte, Camillo ci aspetta, pronto a insegnarci la grammatica della carità.

Nel 1592 ha piantato un seme a Napoli. Oggi quel seme è un albero con radici profonde e rami larghi, capaci di dare riparo a tanti. Perché la carità non invecchia, non passa di moda. La carità è un fuoco che divampa, un grembo che genera, un abbraccio che non smette mai di stringere. Il mio augurio per questo Giubileo camilliano è quello di lasciarci inquietare dal suo esempio, contagiare dalla sua passione. Perché solo chi si china per servire può davvero alzarsi per amare.

Che Dio benedica il nostro servizio agli ultimi e ai sofferenti! 


+ Don Mimmo Card. Battaglia

Arcivescovo Metropolita di Napoli





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